1860

Bronte, cronaca di un equivoco

Nei primi giorni dell’agosto 1860 il paese di Bronte, centro agricolo di poco meno di diecimila abitanti in provincia di Catania, fu sconvolto da una violentissima rivolta contadina, che divenne subito la più nota tra le jacqueries che attraversarono l’isola in quelle settimane. Non si trattò di un evento improvviso o isolato. L’origine della controversia che opponeva la comunità di Bronte ai possessori dei terreni demaniali risaliva addirittura a quattro secoli prima, quando lo «stato feudale di Bronte» apparteneva all’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo. Il conflitto si era di molto inasprito dopo che Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia, poi Ferdinando I delle Due Sicilie, aveva concesso il 10 ottobre 1799 l’intero «stato», elevandolo in pari tempo a «ducea» , all’ammiraglio inglese Horatio Nelson per ricompensarlo dell’aiuto prestatogli nella riconquista del regno napoletano dal quale era fuggito nel dicembre 1798 sotto l’incalzare delle truppe francesi, nonchè nell’eliminazione della classe dirigente della Repubblica partenopea, in testa l’ammiraglio Domenico Caracciolo.

Nelson per primo, i suoi eredi in forma più continuata e massiccia dopo, avevano infatti introdotto nell’area brontese nuove colture (agrumeti, oliveti e soprattutto vigneti) e nuovi sistemi di produzione che avevano ridotto la superficie dei terreni destinati a usi civici e ne avevano reso più difficile il godimento da parte delle popolazioni interessate. Ne era seguita una sequela interminabile di liti e di cause tra i brontesi da una parte e gli amministratori della ducea dall’altra, controversie che le autorità di governo non erano mai riuscite a risolvere. Già durante le rivoluzioni siciliane del 1820 e del 1848 l’intera area era stata teatro di occupazioni di terre, spostamenti di confini e scontri armati tra i «comunisti», intenzionati a salvaguardare i diritti della comunità, e i «ducali», intenti invece a tutelare gli interessi dei nuovi feudatari ma la situazione, pur rimanendo estremamente tesa, era poi tornata ad una apparente normalità e la controversia aveva continuato ad essere combattuta nelle aule di tribunale. E intanto anche alcuni esponenti di spicco della società locale avevano usurpato terreni comuni a proprio profitto mentre i contadini coltivavano invano il sogno di diventare proprietari di un pezzo di terra.

Lo sbarco dei «Mille» in appoggio alla rivoluzione che scuoteva l’isola e i decreti di Garibaldi sulla divisione delle terre tra i combattenti per la libertà scatenarono nella cittadina un grande entusiasmo e numerosi giovani brontesi accorsero ad arruolarsi tra le schiere garibaldine1. L’atmosfera rivoluzionaria indotta dalla nuova situazione sembrò allora adatta a regolare i conti tra tutti i contendenti. Il primo scontro si ebbe nelle elezioni del Consiglio civico. L’avvocato Nicola Lombardo, capo dei «comunisti», liberale di antica militanza antiborbonica e sostenitore della divisione delle terre demaniali tra i contadini, venne sconfitto quale presidente del municipio da Sebastiano De Luca, mentre a presidente del consiglio fu eletto il barone Vincenzo Meli, un uomo senza alcuna qualità politica. Il Lombardo, malgrado fosse capitano di una delle quattro compagnie di guardie nazionali costituite al fine di mantenere l’ordine, decise allora di tentare la rivincita preparando per il giorno 5 agosto una dimostrazione popolare che avrebbe dovuto portare alla destituzione dei rivali e consentirgli la conquista del potere municipale. Prime misure da adottare sarebbero state quindi la divisione delle terre demaniali e della «Ducea» tra i contadini e l’abolizione della tassa sul macinato secondo il decreto dittatoriale del 17 maggio che l’autorità locale non aveva ancora applicato.

Ad acuire il contrasto tra il Lombardo e i componenti lo schieramento avversario intervenne poi una torbida vicenda locale. Lombardo assunse la difesa di un certo Matteo Torcetta, che aveva assassinato il marito della sua amante. A sostenere la parte civile nel processo intervenne invece l’avvocato Cesare, notoriamente legato ai «ducali». Persa la causa – il Torcetta era stato condannato a morte – il Lombardo cercò di impedire l’esecuzione ricorrendo all’aiuto di una squadra di garibaldini messinesi. Il tentativo andò a vuoto ma la vicenda lasciò uno strascico di rancore anche personale tra gli avversari. Il Cesare fu poi eletto alla carica di giudice, il che peggiorò ancora la situazione.

Né migliorò il clima in paese l’evasione, favorita proprio dal Lombardo, di alcuni «malfattori noti per uccisioni e per furti» che le autorità municipali avevano fatto arrestare per raffreddare la temperatura sociale. Cortei di contadini, eccitati dalla prospettiva di ottenere le sospirate terre, avevano intanto preso a percorrere le vie cittadine, lanciando messaggi minacciosi verso coloro che venivano individuati come «nemici»; alcuni di essi fuggirono temendo il peggio. Gli eventi poi precipitarono. Il primo di agosto gruppi di rivoltosi circondarono il paese per impedire altre fughe. La folla inferocita si lasciò quindi andare a uccisioni selvagge, saccheggi, incendi che durarono quattro giorni senza che neppure il Lombardo, proclamato a furor di popolo presidente del municipio, riuscisse a porre un limite a quegli eccessi. Il palazzo ducale però non rientrò tra gli obiettivi dei rivoltosi.

Secondo il Radice, le vittime furono, oltre ad un rivoltoso rimasto ucciso nel tumulto probabilmente da una pallottola vagante, la guardia comunale Carmelo Luca Curchiurella, il notaio Cannata e il figlio Antonino, Mariano Zappia, Mariano Mauro, il falegname Nunzio Lupo, Nunzio Battaglia, Giacomo Battaglia, il cassiere comunale Francesco Aidala, Vito Margaglio, Vincenzo Lo Turco, Rosario Leotta, l’usciere Giuseppe Martinez, l’impiegato del catasto Giovanni Spedalieri, Vincenzo Saitta, Antonino Lupo2. Altri, come il padre dello stesso Radice e un bambino di dieci anni, figlio del Leotta, furono sottratti a stento al linciaggio3.

Esauritasi l’onda, su mandato di Garibaldi, timoroso che quell’embrione di guerra civile potesse compromettere l’esito della spedizione, giunse la mattina del 6 a Bronte Nino Bixio con due battaglioni di garibaldini e l’incarico di ristabilire l’ordine. Raccolte le testimonianze di alcuni cittadini prontamente accorsi, tra i quali alcune delle vedove delle vittime, sulla base delle loro accuse mise il paese in stato d’assedio e ordinò l’arresto immediato di sette persone, tra cui il Lombardo che si era recato personalmente a trovarlo per proporgli la sua versione dei fatti. Convocò quindi da Adernò a Bronte la Commissione mista eccezionale di guerra che, a norma dei Decreti dittatoriale 17-5-1860, n. 8 e 28-5-1860, n. 19, era competente per i reati contestati. Il processo, apertosi il 7 agosto, si concluse il 9 alle ore 204 dopo l’escussione di 28 testimoni, con il rinvio ad altro approfondimento processuale degli imputati Luigi Saitta e Carmelo Minissale e la condanna «alla pena di morte da eseguirsi colla fucilazione» di Nicolò Lombardo, «di anni 48 civile», di Nunzio Samperi Spiridione «di anni 27 murifabbro», di Nunzio Longhitano Longi «di anni 40 villico», di Nunzio Spitaleri Nunno «di anni 40 villico», di Nunzio Ciraldo Fraiunco «di anni 50 villico» riconosciuti colpevoli «di guerra civile, devastazione, strage, saccheggi, incendii, conseguiti omicidi». La condanna fu eseguita il giorno successivo, 10 agosto 18605. Ma la storia di Bronte non si racchiude in questo tragico momento che ho qui riassunto, e nel quale si è voluto pietrificare la vita di una comunità che merita di essere ben altrimenti conosciuta.

Quanto alle ricostruzioni di questi drammatici eventi diffuse dal mondo neoborbonico non credo valga la pena spenderci una sola parola in aggiunta a quelle sprezzanti che il Radice volle rivolgere loro6.

1 B. Radice, Nino Bixio a Bronte, «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», a. VII, fasc. I, 1910, pp. 256-260. In tempi recenti alcuni aspiranti politici frustrati e taluni scrittorelli in cerca di facili guadagni avrebbero poi tentato di infamare quei giovani definendoli appartenenti a cosche mafiose. Ma questa è un’altra, molto squallida, storia. Nella ricostruzione dei fatti preferisco seguire il testo del Radice che ha conosciuto larghissima notorietà piuttosto che gli studi di storici moderni come Lucy Riall, che pure sui fatti di Bronte ha scritto un libro fondamentale.

2 Ivi, pp. 277-290.

3 Ivi, p. 297.

4 Stranamente il Radice afferma che «la causa fu spedita in quattro ore», ivi, p. 427.

5 Ivi, p. 429.

6 Ivi, pp. 433-434.

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