Economia

Lo zolfo siciliano tra Napoli e Londra

La fascinazione esercitata sugli storici dalla «drôle de guerre» tra Regno delle Due Sicilie e governo britannico nella primavera 1840 causata dalla siciliana «questione degli zolfi» ha finito per focalizzarne l’attenzione quasi esclusivamente sugli aspetti politico-diplomatici e per indurli così a considerarla – e così fu descritta da parte della pubblicistica dell’epoca – solo come una manifestazione di politica coloniale esercitata dalla «perfida Albione», decisa ad accaparrarsi una preziosa materia prima, contro un piccolo regno orgogliosamente deciso a difendere la propria dignità.

Sono invece rimasti in ombra gli aspetti propriamente economici della questione, che raccontano una storia ben diversa. Poiché una breve nota non può certo chiarire tutti i risvolti di questa intricata vicenda sulla quale corrono molte ricostruzioni approssimative, inviterò i lettori – utilizzando anche alcuni dati inediti ricavati da una ricerca che ho in corso negli archivi di Stato siciliani – a riflettere soltanto su alcune cifre che furono a fondamento del contratto con il quale venne concesso da Ferdinando II nel luglio 1838 alla società Taix Aycard e C. il monopolio dell’esportazione dello zolfo siciliano, la cui produzione veniva bloccata d’autorità a 600.000 cantara (un cantajo=kg 79,342). Si sosteneva infatti che quello fosse il quantitativo massimo richiesto sul mercato internazionale a fronte di una produzione che aveva toccato quota 900.000. Contro quella concessione si levarono subito le proteste sia dei produttori ed esportatori inglesi che di quelli francesi, gli attori più numerosi nel settore, sostenuti dai rispettivi governi. Gli inglesi lasciarono intendere di essere disposti a ricorrere anche all’uso della forza per cancellare quello che ritenevano un arbitrio commesso in violazione dei trattati vigenti.

Il presupposto del contratto era che l’eccesso di produzione aveva determinato un crollo dei prezzi ad un livello non più remunerativo, tanto che la ditta Verona e Messineo, secondo l’esempio che sarebbe poi rimasto paradigmatico offerto da un polemista agguerrito come Michele Solimene («Sulla proposta del trattato di reciprocanza e di commercio tra l’Inghilterra la Francia col regno delle due Sicilie e sulla disputa de’ zolfi. Osservazioni di Michele Solimene», Napoli 1840, p. 87), nel 1837 offriva sul mercato 10.000 cantara di zolfo al prezzo di tarì 9 ½ senza trovare acquirenti. Bisognava dunque trovare una soluzione – e il contratto con la Taix Aycard fu quella escogitata – per garantire un giusto guadagno ai proprietari delle miniere e impedire che la ricchezza mineraria dell’isola venisse sfruttata a vantaggio di speculatori internazionali. L’aspetto insolito e sospetto di questa trattativa fu che la stima della domanda e dell’offerta non fu elaborata dagli uffici governativi bensì dalla società richiedente la concessione: la controparte l’accolse senza alcuna verifica.

Si scoprì poi, attraverso le dichiarazioni dei proprietari delle miniere sul prodotto del 1838, che la capacità produttiva della sola provincia di Caltanissetta – senza contare il prodotto almeno pari della sola provincia di Girgenti – superava ampiamente il milione di cantara, e dunque il danno prodotto dalla riduzione forzatamente imposta ai proprietari dalla mancata vendita era ben superiore alle stime iniziali.

Inoltre se si esaminano i dati relativi all’esportazione del giallo metalloide dall’isola si osserva facilmente che dal 1836 essa era stata largamente superiore a 600.000 cantara annue, e dunque il mercato assorbiva costantemente quantità maggiori del minerale rispetto a quella indicata dagli estensori della proposta.

Infine è facile rilevare che l’esempio addotto da Solimene era ben poco «esemplare», essendo largamente noto che non esisteva «il prezzo» dello zolfo ma una pluralità di prezzi determinata da molteplici fattori, quali la qualità della merce offerta, la distanza della miniera dai porti d’imbarco, il tempo stabilito per la consegna rispetto al momento dell’ordine e così via.

Faccio tre esempi che credo dicano più di lunghe trattazioni. Il 20 gennaio proprio del 1837 la ditta dei fratelli Vassallo, una delle maggiori del settore, vende a William Sanderson sulla piazza di Palermo 2000 cantara di zolfo al prezzo di tarì 12.10 al cantajo. Il primo febbraio 1838 gli stessi Vassallo vendono sulla piazza di Licata a un certo Bonifacio Cuomo 3000 «carichi» di zolfo da rotoli 125 ciascuno (un rotolo = kg. 0,793) a tarì 9.10, dunque addirittura ad un prezzo inferiore a quello indicato da Solimene. Ma il giorno seguente gli stessi Vassallo vendono a Giuseppe Malvica, sulla piazza di S. Cataldo, carichi 2700 di zolfo di «seconda» qualità di Licata – e qui i rotoli sono 123 a carico, dunque un peso inferiore – a tarì 15 al cantajo: e dunque la situazione si presentava molto diversa da quella prospettata da Solimene e accolta acriticamente da parte della storiografia.

Malgrado il giudizio positivo che molti storici ne hanno dato, dunque, io ritengo che il contratto fosse un affare a vantaggio pressoché esclusivo dell’imprenditore marsigliese. Perfino Ferdinando II dovette finire per rendersene conto, tanto che nel gennaio 1840 – ben prima dunque che il minacciato intervento inglese avesse, malgrado i due anni trascorsi dalla conclusione del contratto, un inizio di attuazione – ordinava ai suoi ministri di trovare la soluzione più idonea a rescinderlo. È paradossale che a dargli una mano sia poi intervenuto proprio Palmerston con l’intempestivo ordine nel mese di aprile alla «Mediterranean Fleet» di operare un blocco navale contro il regno borbonico, consentendo così al re di Napoli di apparire come la vittima di una aggressione piuttosto che come l’involontario – almeno così ci si augura – complice di una tentata truffa ai danni dell’economia isolana. Pagarono comunque tutto i siciliani ai quali re Ferdinando impose poi il pagamento di robusti indennizzi in ducati sonanti a tutti gli attori coinvolti nella ingarbugliata faccenda a causa di errori – per non dir peggio – dei quali non erano minimamente responsabili.

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