Uffa, che barba!

Nel 1860 la rivoluzione siciliana segna la fine del regno borbonico. È la terza sollevazione popolare in armi contro il governo napoletano dopo quelle del 1820 e del 1848, e uno stillicidio di congiure, colpi di mano, rivolte prontamente soffocate a mano armata ed esecuzioni capitali. L’insofferenza isolana per la soggezione ai «domini al di qua del Faro» non aveva origini soltanto politiche e non derivava di certo soltanto dal colpo di mano con il quale, grazie al sostegno delle potenze reazionarie della vecchia Europa, Ferdinando III nel 1816 aveva cancellato con un escamotage lessicale l’antico regno di Sicilia ma aveva anche profonde e robuste radici che affondavano nel terreno dell’economia. Sul punto è condivisibile la tesi di due autori molto generosi con la politica economica dei governi borbonici che devono però concludere che «il regime borbonico preferì lasciare l’isola nel suo stato di paese prevalentemente produttore di zolfo e derrate, servendosene per lo sviluppo dei territori continentali»1. E numerosi tentativi di fondare stabilimenti industriali in Sicilia si infransero per le manovre degli imprenditori napoletani, decisi a bloccare sul nascere concorrenti che avrebbero potuto sottrarre loro quote di un mercato protetto2.

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Scuola pubblica e Risorgimento

La professoressa Maria Schiena è stata censurata di fatto durante un evento organizzato dal Rotary Club di San Giovanni Rotondo con il patrocinio, tra gli altri, dell’Istituto Magistrale “Maria Immacolata. Condividiamo una sua lettera pubblicata sul giornale “L’attacco” di Foggia, sperando che nelle scuole pubbliche italiane venga fatta una divulgazione storica attendibile sul Risorgimento e non avvengano più eventi del genere.

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Dalla Russia, per Garibaldi

Accade talvolta di trovare su alcuni siti redatti da personaggi dall’italiano improbabile, ma per autocertificazione profondi conoscitori di tutte le lingue del globo, affermazioni perentorie sulla disistima che – garantiscono con sussiego – circonderebbe la figura di Garibaldi a livello mondiale. Nei cinque continenti, garantiscono, il nome del condottiero nizzardo è sempre stato usato come un insulto.
Poi capita di aprire – la moda imporrebbe di dire, di “riaprire”: ma io non l’avevo letto – “Passato e pensieri” di un grande scrittore russo, Alessandro Herzen, e di leggere questo ritratto del futuro condottiero della rivoluzione siciliana del 1860 (Einaudi, Torino 1949, pp. 104-105):

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Una bufala per il riso

Circola da anni – e la si può ancora trovare oggi 28 aprile 2023 ad esempio nel blog “Terroni” – l’accusa al Regno d’Italia, anzi ai “Savoia” che a quanto pare nel regno facevano tutto personalmente, di aver proibito nel 1861 la coltivazione del riso in Sicilia ovviamente al fine di proteggere la produzione del “Nord”. Chiedere ai suoi propalatori quale norma di legge abbia introdotto questo divieto è inutile: le fonti alle quali si è rimandati sono vari e vaghi riferimenti giornalistici. Si tratta – ma nessuno se ne stupirà – dell’ennesima fandonia per creduloni.

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Ferrovie? No, grazie

La carenza di vie di comunicazione costituiva, notoriamente, uno dei maggiori svantaggi per lo sviluppo dell’economia siciliana in epoca preunitaria (e purtroppo anche post; ma questa è un’altra storia). E non sempre la causa era la mancanza di fondi. Il procuratore regio Pietro Calà Ulloa, in un celebre rapporto al suo ministro del 1838, scriveva che malgrado dal 1817 fosse stata imposta nella provincia di Trapani una tassa finalizzata proprio alla costruzione di strade, in oltre vent’anni «non si ebbero che sole tre miglia di via provinciale».

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